Le parole proibite di Margaret A.

[N.B.: Il seguente rapporto è stato stilato a esclusivo vantaggio dell’Associazione Nazionale dei Giornalisti per il Recupero della Libertà di Stampa (JATROF) da una giornalista che ha fatto visita a Margaret A. nel corso degli ultimi due anni. La JATROF richiede che questo rapporto non venga duplicato in alcuna forma né spostato dai propri uffici e che le informazioni qui fornite siano usate con cautela e discrezione.]

 

Introduzione

Malgrado il Dipartimento Carcerario conceda un servizio giornalistico al mese, sono rari i resoconti non censurati di contatti diretti con Margaret A.. Il seguente, pur mancando una trascrizione letterale delle parole di Margaret A., tenta di offrire una descrizione dell’incontro di una giornalista con Margaret A. più completa e fedele di quanto sia già pubblicamente disponibile. La consapevolezza di questa reporter riguardo l’importanza che un simile incontro riveste per i suoi colleghi, e riguardo il pericolo che comporterebbe la sua diffusione presso un pubblico più vasto per tutti coloro i quali sono coinvolti in un impegno del genere, ha fatto sì che il documento fosse depositato presso la JATROF.

Prima di descrivere il mio incontro con Margaret A. desidero sottolineare le restrizioni che hanno limitato questo evento. I membri della JATROF devono necessariamente avere una certa familiarità con le tecniche usate dal governo per manipolare la percezione pubblica dei dati. Del resto anch’io, poco prima del servizio fotografico, mi consideravo piuttosto esperta dei trucchi adottati dal governo per controllare la rappresentazione delle questioni che ai suoi occhi rivestono maggiore importanza. E tuttavia posso assicurarvi che esiste l’insidioso rischio di dimenticare momentaneamente l’ovvio: laddove si parla di Margaret A. la nostra attenzione si rivela fallace, impedendoci di pensare chiaramente e obiettivamente ai fatti concreti che ci si parano dinanzi agli occhi. Non so come possa accadere, so solo che succede. Le informazioni che abbiamo su Margaret A. in un certo senso non quadrano. Mi preme dunque sollecitare i lettori a non sorvolare sui dettagli già noti, ma di considerare le mie ripetizioni al riguardo come un monito, un promemoria, un aiuto a riflettere su un argomento che, a dispetto della pubblicità di cui gode, resta notevolmente oscuro. Di conseguenza chiedo ai miei lettori l’indulgenza di sopportare divagazioni in quelle che potrebbero sembrare inutili analisi e speculazioni politiche. Non conosco altro modo di strappare il mio incontro con Margaret A. all’oscurità e al fango che tendono a ottenebrare qualsiasi resoconto dei fatti relativi alla sua condizione.

Tanto per cominciare, il più scontato: Margaret A. permette un solo servizio giornalistico al mese. Il Dipartimento Carcerario (naturalmente lieto di rendere noto che il governo non può essere ritenuto responsabile del desiderio frustrato del pubblico di avere «sue» notizie) non concede a Margaret A. di scegliere tra coloro che chiedono di incontrarla e, in questo modo, controlla effettivamente l’accesso che i media hanno alla sua persona. Di sicuro, il Ministero della Giustizia preferirebbe fare a meno di questi incontri, ma quando agli inizi della detenzione di Margaret A. negarono ai media qualsiasi contatto con lei, il tentativo di farla sprofondare nell’oblio suscitò, al contrario, un flusso costante di speculazioni e proteste che li spaventò, come ad esempio l’insistente richiesta di revoca dell’Emendamento Margaret A.,1 o, peggio ancora, il rigurgito della massiccia sommossa civile che aveva portato inizialmente alla sua incarcerazione e alla sua condanna al silenzio. Oltre alla cancellazione delle parole di Margaret A., credo che la più urgente priorità del governo sia impedire al pubblico di percepirla come una martire. Solo questa considerazione può spiegare perché le condizioni della sua detenzione speciale in un prefabbricato all’interno della Vandenberg Air Force Base siano tali per cui nessuna persona o organizzazione – nemmeno l’Unione Americana per le Libertà Civili (ACLU) o Amnesty International, che condannano la sua reclusione – possa scagliarsi contro il governo. Il giornalista responsabile, in procinto di scrivere un pezzo su Margaret A., deve tenere bene a mente questi fatti.

Selezione e restrizioni per il servizio fotografico

Per tutta la mia vita adulta ho subito il fascino di Margaret A.. Sono diventata giornalista proprio per poter avere un contatto diretto con lei e ho sistematicamente perseguito questo scopo a ogni passo della mia carriera. (Mi rendo conto che per la maggior parte dello JATROF ciò che conta di più sono le implicazioni dell’Emendamento Margaret A. e non Margaret A. in sé. Tuttavia, le parole di Margaret A. per un breve lasso di tempo hanno radicalmente cambiato il mio modo di interpretare il mondo. Dal momento in cui ho smesso di adottarlo, non ho mai cessato di desiderare anche un solo altro barlume di quel punto di vista. Di certo, i membri dello JATROF dovrebbero poter apprezzare più di chiunque il fatto che un traguardo simile non tradisca gli ideali della professione.) Di conseguenza ho studiato le preferenze del Dipartimento Carcerario per la selezione dei giornalisti, mi sono trovata un lavoro decente e poi, con pazienza e tranquillità, ho aspettato. Ho vissuto con cautela. Mi sono tenuta alla larga da contatti sospetti, per quanto sia possibile a una giornalista in servizio. Quando finalmente sono stata selezionata per un servizio su Margaret A., La circospezione è stata premiata, mi sono detta, complimentandomi con me stessa. Mentre leggevo e rileggevo la comunicazione ufficiale mi sono sentita come se avessi appena vinto un visto per la terra promessa.

Insieme al permesso ufficiale era tuttavia allegata una convocazione da parte di Simon Bartkey. Naturalmente, la cosa mi lasciò sconcertata: il controllo di un visitatore da parte di un funzionario del Ministero della Giustizia è piuttosto diverso da un’indagine sulla sua vita privata. Ma mi dissi che ero stata «buona» tanto a lungo che la mia professionalità avrebbe avuto la meglio su quest’ultimo ostacolo. Così, un mese prima dell’incontro con Margaret A., la mia produttrice e io volammo a Washington per conoscere il funzionario del Ministero della Giustizia assegnato a quella che definiscono «la sezione Margaret A.» – un «esperto» che ammise allegramente di non aver mai sentito né letto alcuna delle parole di Margaret A. Non potei impedirmi di restare colpita dallo spettacolo che avevano messo in scena, giacché il Dipartimento Carcerario sapeva gestire alla perfezione una raffinata procedura volta ad assicurare che tutto scorresse liscio e prevedibile, con l’assoluta precisione di un assemblaggio meccanico. Oltre a rappresentare l’opportunità per un’ultima, approfondita analisi dei giornalisti selezionati, a loro modo di vedere una visita a Simon Bartkey stabiliva sia il contesto entro il quale i giornalisti si sarebbero dovuti muovere, sia le regole fondamentali.

Concedetemi di ricordarvi qui che Simon Bartkey è sopravvissuto a tre diverse amministrazioni proprio perché considerato un «esperto» della «situazione di Margaret A.». Sin dagli albori del fenomeno Margaret A. ciascuna amministrazione si è risentita per la continua fascinazione che la donna esercitava sul pubblico. Bartkey me l’ha spiegata in questi termini: «Il perenne interesse nei suoi confronti sfida ogni logica. Le sue parole – tranne qualche registrazione, giornale, o ciclostilato clandestino, tutti sequestrati – sono state completamente cancellate, e il pubblico, oltre a non avervi accesso, di certo non ne conserva memoria. Il pubblico americano è noto per non aver mai dedicato così tanta attenzione a qualcuno, in particolare a chi non alimenta continuamente la macchina dei media. Perché quindi la gente vuole ancora vederla? Perché non l’hanno dimenticata?». (Quanto fiele devono aver ingoiato i politici sapendo che negli ultimi quindici anni Margaret A. ha goduto di una fama più vasta di ciascun presidente in carica nello stesso periodo.)

Pur essendo l’evento più importante della mia vita (avevo diciannove anni), non riesco a ricordare nessuna delle sue parole. Ero troppo giovane e ingenua a quei tempi per dedicarmi ai giornali e alle figure effimere, come Margaret A., che immancabilmente la stampa produce, e di certo non mi sono mai sognata di pensare che le sue parole potessero essere espunte da internet. E come la maggior parte della gente non credevo possibile che le parole di una persona potessero diventare illegali. Giravano voci, certo, di vecchie registrazioni e giornali sequestrati – eppure, malgrado io abbia accuratamente seguito ogni indicazione mi sia giunta all’orecchio, nessuna di queste ha portato a risultati concreti.

Per forse venti dei cinquantacinque minuti che trascorsi a rispondere alle sue domande, Bartkey si mostrò estremamente compiaciuto perché, di recente, il passar del tempo aveva offuscato la visibilità pubblica di Margaret A. Accomodandosi nella poltrona di pelle rossa imbottita, dichiarò che più di ogni altra cosa sarebbe stato il gap generazionale a isolare finalmente coloro che si ostinavano nel «prostrarsi dinanzi all’altare della sua memoria». Con le dita che accarezzavano la cravatta verde bottiglia con il simbolo del mandala, insisté che Margaret A. non poteva avere alcuna importanza per gli universitari, dato che questi all’epoca del fenomeno Margaret A. erano solo bambini. A livello razionale il suo discorso potrebbe rivelarsi giusto, ma non ne sono convinta. I ragazzi con cui ho parlato considerano l’Emendamento Margaret A. un insulto così irrazionale ed eclatante rispetto allo spirito del Primo Emendamento da sospettare di qualsiasi cosa gli venga riferito al riguardo. Se non esistono più registrazioni delle parole di Margaret A., non esistono nemmeno i racconti delle massicce sommosse civili che i loro libri di testo usano per giustificare l’approvazione dell’emendamento. Il solo fatto che esista l’Emendamento Margaret A., credo, li ha fatti sospettare che si trattasse di una copertura. Pensate: le uniche immagini che riescono a collegare a Margaret A. sono i video e le foto scattate a questa cittadina americana che vive in esilio nel proprio paese, una donna di mezza età che sembra ancor più piccola vicino allo spiegamento mortale di missili e radar e guardie armate che la circonda. Dubito che i giovani siano in grado di capire che un uso particolare del linguaggio abbia potuto in sé e per sé minacciare la scomparsa di qualsivoglia forma di governo in questo paese (tantomeno che abbia provocato la draconiana misura senza precedenti di un emendamento costituzionale per metterlo a tacere). Ho notato un cinico scetticismo sui loro volti ogni volta che gli adulti gli parlavano di quel periodo. Come potrebbero mai una sfilza di parole sulla carta o un discorso registrato essere tanto pericolosi, come affermano le autorità? E perché non hanno cancellato anche i discorsi di altre persone, per esempio dei suoi seguaci più fedeli (tranne nel caso in cui l’abbiano citata)? I giovani non credono sia stato tutto così lineare. Quando sento le loro domande mi è evidente la loro convinzione che il governo stia coprendo l’esistenza passata di una potente forza armata e rivoluzionaria. Considerano l’emendamento non solo una copertura, ma anche una misura pretestuosa mirata a limitare la libertà di espressione e stabilire un precedente per future limitazioni.

Va da sé che non diedi voce a queste osservazioni mentre parlavo con Bartkey, e nemmeno gli esposi la mia teoria che le nuove generazioni non solo sospettano un insabbiamento ma che muoiono dalla voglia di dare un morso al frutto proibito. Pur dubitando della sua tanto celebrata potenza (o tossicità, a seconda dei punti di vista), desiderano sapere quello che gli si sta negando. Sembra paradossale, lo ammetto, tuttavia ho colto una nota di risentimento nella loro espressione scettica. I pericoli legati alle parole di Margaret A. possono non essere evidenti agli occhi dei giovani, ma etichettare come proibito questo frutto che i genitori hanno avuto il privilegio di assaggiare – «l’emendamento» da loro considerato una copertura, tanto per cominciare – sta suscitando rancore in questa nuova generazione di futuri adulti. Invece di far cadere nell’oblio Margaret A., i giovani stanno probabilmente sviluppando un’ossessione nei suoi confronti. Non sarei affatto sorpresa se attorno al fenomeno Margaret A. nascesse una nuova, strana forma di culto.

Non intendo dire che approverei strani culti e ossessioni nei riguardi del frutto proibito. Forse il fascino che Margaret A. ha esercitato su di me e su altri come me è per la nuova generazione incomprensibile quanto la paura che il governo ha delle sue parole. (Le diverse reazioni a Margaret A. sembrano delineare una Grande Linea di Demarcazione per la maggior parte degli abitanti di questo paese.) Ma qualcosa che attiene all’idea di lei – a prescindere dal fatto che le sue idee siano effettivamente ricordate – proprio l’idea di questa donna rinchiusa in una base militare di massima sicurezza perché le sue parole sono così potenti… ebbene, quell’idea provoca una qualche reazione in quasi tutti i cittadini di questo paese, compresi quelli che trovano spaventoso il fenomeno Margaret A. (tranne, naturalmente, gli attivisti contrari alla libertà di espressione). Se fossi stato in Bartkey mi sarei preoccupato: è solo questione di tempo, ma prima o poi l’Emendamento Margaret A. sarà abrogato. E se Margaret A. sarà ancora viva, allora la situazione potrebbe esplodere.

 

 

La sicurezza di Margaret A.

Le uniche cose che riuscimmo a vedere della base Vandehberg furono la recinzione e l’ingresso. Ancor prima che consegnassimo i documenti al militare di guardia, tre persone in borghese ci vennero incontro e ci ordinarono di seguirli sulla strada asfaltata. Uno di loro poi salì sul furgone, fece dietrofront e si allontanò dalla base; gli altri due ci intimarono di entrare in un piccolo prefabbricato di metallo sulla destra. La cosa mi confuse, e mi chiesi se ci fosse stato qualche problema all’ultimo minuto, o se i controlli su di noi avessero rivelato qualcosa riguardo all’uno o all’altra che era risultato sgradito al Ministero della Giustizia. (Mi chiesi anche – di sfuggita – se per chissà quale ragionamento contorto la tenessero in quel prefabbricato, fuori dal perimetro della base.)

Quel che successe all’interno rese assurde le mie speculazioni. Bartkey ci aveva ovviamente fatto firmare un accordo secondo cui avremmo dovuto subire perquisizioni a corpo nudo, che avremmo dovuto usare le loro apparecchiature, che tutto il materiale sarebbe stato da loro riveduto e corretto, e che alla fine avremmo dovuto presentargli un esteso rapporto riassuntivo. Sopportai l’ispezione degli orifizi corporali senza protestare, naturalmente, dato che i giornalisti sono spesso costretti a subire queste ordalie quando entrano nelle prigioni per intervistare i detenuti. (Sono certa che i colleghi che stanno leggendo sappiano bene come, in certe circostanze, si tenti di esibire la faccia migliore in una situazione così imbarazzante e spiacevole.) E nemmeno protestai per il potere editoriale assoluto che il Dipartimento Carcerario si arrogava, dato che altrimenti, com’è ovvio, l’Emendamento Margaret A. ne sarebbe uscito ridicolizzato. Ma l’insistenza affinché usassimo le loro apparecchiature – quello mi infastidiva per qualche motivo sfuggente, difficile da definire. Bartkey aveva spiegato che le loro apparecchiature funzionavano senza la possibilità di registrare, e dato che nessuno, secondo i termini dell’Emendamento Margaret A., poteva legalmente registrare le sue parole, la mia reazione conscia si concentrò su questo punto logico. Ma mentre mi stavo rimettendo i vestiti – anche quelli minuziosamente perquisiti – mi resi conto che non avrei potuto portarmi dietro la sacca e che non solo non ci sarebbe stata alcuna registrazione, ma anche nessuna penna o foglio, nessun portatile, nessuna possibilità di prendere appunti oltre a quello che sarei riuscita a costringere all’interno della mia memoria poco esercitata. Naturalmente protestai. (In fondo, sono pur sempre la donna che si affida al computer per farsi ricordare quando tagliare i capelli, a che ora pranzare, e quanto tempo è passato dall’ultima volta che ha scritto alla madre.) Non faceva differenza, certo. Mi dissero che se non sceglievo di adeguarmi alle regole, avrebbero fatto entrare la produttrice e la squadra senza di me.

Dopo averci propinato un altro ripasso delle regole fondamentali, ci scortarono sul retro senza finestre di un furgone del Dipartimento Carcerario e ci fecero percorrere un tratto di strada misterioso, pieno di curve e di tanto in tanto accidentato. Il furgone si arrestò tre volte per almeno un minuto prima di frenare brevemente – come di fronte a un segnale di stop, o per permettere l’apertura di un cancello (credo che la seconda ipotesi corrisponda a verità) – e poi proseguì per due, tre secondi, prima di fermarsi definitivamente. Solo quando il motore si spense mi venne in mente, con un’intensità mozzafiato, che ciò che avevo aspettato per quasi metà della mia vita stava per succedere. Le parole di Margaret A. sono proibite. Eppure, per qualche minuto, io avrei avuto il privilegio di sentirla parlare. Solo «frivolezze», certo, loro non avrebbero permesso nient’altro – agenti provvisti di auricolari sarebbero stati presenti per assicurarsene – ma comunque le parole sarebbero state quelle di Margaret A., e persino le sue «frivolezze», ne ero sicura, sarebbero state potenti, forse elettrizzanti. Ed ero convinta che sentendo parlare Margaret A. avrei ricordato tutto ciò che avevo dimenticato di quei tempi e avrei capito tutto quello che mi era sfuggito durante la mia vita adulta.

Una tale presupposizione derivava non da sogni romantici accarezzati fin dall’adolescenza, ma dalle notizie che avevo (con discrezione) racimolato sulle condizioni di vita di Margaret A.. Avevo saputo, per esempio, da una fonte altamente attendibile che in precedenza aveva lavorato per il Ministero della Giustizia, che il Dipartimento Carcerario aveva assegnato più di cinquecento agenti di sorveglianza al controllo di Margaret A., i quali avevano tutti lasciato il Ministero della Giustizia dopo aver terminato il loro incarico alla base Vandehberg.2 Quel che continuo a trovare straordinario è che i sorveglianti assegnati a Margaret A. siano sempre stati – e continuano a esserlo – scelti esclusivamente da un pool di esperti nella massima sicurezza delle strutture federali. Ciascun militare, prima di incontrare Margaret A., viene avvisato che tutte le parole pronunciate entro i confini dell’alloggio della prigioniera saranno registrate ed esaminate. Prima di prendere servizio al Vandehberg, i nuovi arrivati si sottopongono a rigorose sessioni di orientamento e durante il servizio presentano un rapporto esaustivo dopo ogni contatto personale con Margaret A.. Tuttavia nessun sorvegliante è mai stato assegnato due volte alla sicurezza di Margaret A. dopo essere venuto in contatto con lei. Un’altra statistica curiosa: chi aveva il compito di supervisionare le parole pronunciate nell’alloggio di Margaret A. inevitabilmente «si esauriva» durante il secondo anno di monitoraggio.3 Pensate: a Margaret A. è proibito per sempre di parlare di qualsiasi argomento sia pur remotamente «politico». Come potrebbe dunque rovinare in modo così sistematico tutti gli agenti di sorveglianza venuti in contatto con lei e turbare ogni supervisore assegnato all’ascolto della sua (non politica: «frivola») conversazione?4 Non mi è mai venuto in mente di chiedermi cosa intendesse Bartkey quando disse che tutte le conversazioni dovevano limitarsi a «chiacchiere frivole, non politiche». Lui e gli altri funzionari mi fecero una lista del tipo di domande che avrei dovuto evitare – che andavano dall’argomento del suo esilio, all’Emendamento Margaret A., e al continuo interesse del pubblico nei suoi confronti, fino ai punti specifici di cui, secondo voci di corridoio (dato che non esistono più documenti, si può solo far riferimento a voci o a ricordi sfocati), aveva parlato durante il breve periodo iniziale del fenomeno Margaret A.. Credo di aver capito che l’esaurimento dei suoi sorveglianti avesse più a che fare con la personalità di Margaret A. che con le «chiacchiere» che scambiava con loro (non importa che ciò non riguardi l’eventuale licenziamento dei supervisori da parte del Ministero della Giustizia). Perciò, quando la nostra scorta aprì lo sportello posteriore del furgone mi dissi che stavo per incontrare non solo la donna più stupefacente della storia, ma probabilmente la persona più carismatica, affascinante e adorabile che avrei mai avuto il piacere di conoscere.

 

L’incontro con Margaret A.

Mentre il mio produttore e la mia squadra scaricavano le apparecchiature del Dipartimento Carcerario dal furgone, io – colei che più tardi avrebbe dovuto rispondere davanti alla telecamera delle proprie osservazioni e impressioni di Margaret A. e delle condizioni del suo isolamento – feci un giro nella piccola struttura che circondava il prefabbricato in cui, secondo me, era reclusa. All’inizio vidi poco, a parte l’inquietante spiegamento di apparati di sorveglianza e sicurezza e di militari. Il recinto d’acciaio alto sei metri, rinforzato da rotoli di filo spinato e sormontato da una sentinella visibilmente armata e chiusa in una postazione a vetri, nascondeva qualsiasi cosa tranne il cielo caldo e secco. (Da lì il sole della California meridionale sembrava soffocante e oppressivo.) Molti uomini in divisa, dall’espressione dura, portavano fucili automatici. Davvero pensavano che potessimo tentare di far fuggire Margaret A.? Ero talmente consapevole degli sguardi di quegli uomini così pesantemente armati che ci osservavano in attesa, pronti all’azione, da sentirmi scossa, come un gioielliere che apre la cassaforte per i ladri, terrorizzata all’idea che una mossa «falsa» (cioè, fraintesa) potesse fare di me una donna morta. Solo perché Margaret A. non è una «criminale», ci si dimentica quanto il governo la consideri pericolosa.

Eppure il peso di questa presenza militare suscitò in me una reazione complessa da descrivere e di cui fui consapevole solo mentre parlavo con Margaret A.. Le divise, la sentinella, la regolamentazione sovradeterminata di ogni nostro movimento e intenzione contribuivano a farmi dimenticare che Margaret A. non era mai comparsa davanti a un giudice e tantomeno aveva subito un processo al cospetto di una giuria.5 Così quando vidi le piantine avvizzite che crescevano in un angolo della struttura, sulla sabbia secca e ruvida, percepii subito che quello era un «privilegio extra» generosamente concessole dal Dipartimento Carcerario, e quindi, invece di entrare nell’alloggio di Margaret A. con la sensazione di quanto sarebbe stato opprimente vivere imprigionata da quella recinzione d’acciaio e dalla sentinella con i vetri a specchi riflettenti e la costante minaccia delle armi, pensai quanto fosse fortunata Margaret A. a poter passeggiare fuori, all’aperto e nel «giardino».

Faccio questa confessione per spiegare quanto subdolamente la percezione possa essere manipolata. Sono colpita dall’irrazionalità secondo cui la presenza massiccia della sorveglianza e della sicurezza contribuiscano a far credere che l’isolamento di Margaret A. sia legittimo, e tuttavia evidentemente questa è la convinzione degli esperti del Ministero della Giustizia, dato che nei video e nei fotogrammi la presenza oppressiva dei militari non viene mai censurata, mentre la varietà di piccole concessioni che Margaret A. ha conquistato non è mai sopravvissuta al montaggio del Dipartimento Carcerario.6

Perciò quando feci il mio ingresso nell’alloggio di Margaret A. accompagnata da tre militari e una squadra che borbottava protestando per le apparecchiature antiquate del Dipartimento Carcerario, guardai tutto quel che mi si parava dinanzi con occhi particolarmente prevenuti. Non è poi così male, pensai mentre osservavo la prima delle due stanze di Margaret A.. Notai i cuscini che ammorbidivano le due sedie di legno con i braccioli e restai sbalordita dai bellissimi intrecci della tappezzeria che coprivano gran parte dell’orribile parete verdastra. Non è così brutta come la maggioranza delle celle, e certamente è molto meglio delle prigioni sotterranee in cui sono detenuti molti attivisti politici, ricordai a me stessa. Mi viene in mente, con il senno di poi, che probabilmente volevo credere che Margaret A. vivesse in circostanze tollerabili affinché le possibilità per lei di resistere per tutto il tempo necessario prima di essere scarcerata sarebbero state ragionevolmente alte. E così, prima che Margaret A. entrasse nella stanza, i miei occhi si fissarono sul piccolo computer appoggiato su un tavolo vicino alla porta esterna, mentre io riflettevo su come – proprio grazie a quel computer – il talento di Margaret A. con le parole (e forse persino le sue stesse parole) avesse la possibilità di sopravvivere, e mi rallegrai del fatto che – malgrado l’Emendamento Margaret A. – il Dipartimento Carcerario non incombesse in modo pesante e oppressivo su di lei come sulla maggior parte dei prigionieri politici.

Ma poi Margaret A. comparve, e per qualche folle istante mozzafiato il tempo parve fermarsi. Dopo aver salutato gli agenti di sorveglianza (le cui facce, notai meccanicamente, si colorarono d’un tratto di circospezione e disagio) rimase lì, ferma, una piccola figura corpulenta in camicia e pantaloni grigi di cotone che ci scrutava come se fossimo noi a essere lì per essere intervistati, e non viceversa. Lottai per qualche tormentato secondo con un groppo alla gola e lanciai un’occhiata agli agenti di sorveglianza in attesa di una presentazione. Ma tornando a guardare Margaret A. mi resi conto dell’assurdità della mia speranza e mi disprezzai per aver scambiato gli agenti di sorveglianza per gli ospiti di una serata di gala. Benché non ne avessi idea al momento (e tuttora non capisco bene come successe), quell’attimo segnò la perdita di una professionalità che fino ad allora mi aveva sostenuto lungo tutto l’arco della mia carriera.

Alla fine fu la mia produttrice a prendere l’iniziativa: «Mi permetta di presentarmi», esordì tendendo la mano, andando incontro a Margaret A., la quale, tuttavia, mandò in frantumi quell’istante di normalità ritrovata, ignorando la mano tesa, e commentando che creare una facciata di convenzioni sociali le sarebbe costato più di quanto lei non fosse disposta a pagare – anche a dispetto della nostra volontà.7

Il pungente rifiuto di Margaret A. di stringerci la mano aprì un’altra faglia in una situazione già tesa e mi fece adottare di slancio un approccio ancor più duramente critico nei confronti della situazione complessiva e di tutti quelli che ci circondavano. Fu allora, per esempio, che capii fin nel midollo cosa dovesse significare la detenzione per Margaret A.. Prima avevo provato una rabbia astratta contro il suo silenzio obbligato e la sua incarcerazione. Ma nell’attimo in cui Margaret A. menzionò il prezzo della finzione sociale sentii che la sua situazione era reale, e percepii quanto cose apparentemente piccole potessero esercitare un’enorme pressione anche su una psiche abbastanza forte da sopportare il peso dell’oppressione ufficiale, come quella imposta costantemente ai sensi di Margaret A..

Avendo fatto tesoro dell’imbarazzo della mia produttrice, quando lei mi presentò Margaret A. mi limitai a sorridere e a fare un cenno col capo. Tuttavia lei respinse anche questo segnale, poiché alla smorfia leggera del suo labbro (non di divertimento: i suoi occhi anziani e gelidi restarono freddi e distanti) mi sentii abbastanza sciocca da arrossire (il che mi fece sentire ancor più sciocca). Il suo rifiuto e la mia reazione al suo rifiuto suscitarono in me in primo luogo risentimento – per un attimo provai indignazione per la sua mancanza di buone maniere – e poi, qualche istante dopo, imbarazzo, perché pensai che Margaret A. dovesse avermi scambiato per un lacchè del sistema che l’aveva presa di mira.8

La troupe non si preoccupò di perdere tempo con le presentazioni, si limitò a sistemare il necessario e iniziò a registrare con le tanto disprezzate apparecchiature. La produttrice ricordò loro di girare senza badare alla nostra conversazione, di riprendere tutto nelle due stanze del prefabbricato e di accertarsi di catturare un’inquadratura del «giardino» di Margaret A.. E poi mi fece un cenno con il capo, come a rammentarmi che avrei dovuto fare la mia parte anch’io. Rivolsi di nuovo lo sguardo a Margaret A. e freneticamente cercai di richiamare alla memoria la prima domanda che avevo programmato di farle. Ma non ci riuscii, avevo il vuoto nella mente. Nel panico, chiesi la prima cosa che mi venne in testa: «Chi le taglia i capelli?».

Margaret A. aggrottò le sopracciglia e replicò bruscamente che quello sarebbe stato il genere di informazioni che il Dipartimento Carcerario sarebbe stato lieto di fornirmi. Tutto il mio corpo avvampò per l’imbarazzo; guardandomi intorno, vidi la mia produttrice accigliarsi e i militari sgranare gli occhi. Fu allora che la cosa mi colpì: benché Margaret A. fosse nera, i militari della sorveglianza che avevo visto alla base Vandenberg erano tutti, indistintamente, bianchi. (Sospetto sia stata una combinazione tra l’aver notato i capelli lanosi e molto corti di Margaret A. e il pensiero che non avrei mai potuto immaginare nessuno dei militari che avevo visto – uomo o donna che fosse – impegnato a tagliarli.) A quel punto desiderai poterle chiedere se le guardie di sorveglianza fossero sempre state esclusivamente bianche e, se così era, come si sentiva lei al riguardo. Ma a parte preoccuparmi del fatto che una domanda del genere mi avrebbe messo nei guai con il Dipartimento Carcerario, provai imbarazzo all’idea di come l’avrebbe presa lei. Non sapevo se l’identità razziale di una delle guardie di sorveglianza sarebbe stata rilevante per qualcuno per cui l’imposizione di una sorveglianza tout court era un oltraggio… Fortunatamente ricordai una delle domande che avevo preparato, qualcosa che poteva essere considerato personale (e di conseguenza «frivolo»). «La detenzione e la prospettiva di una vita da detenuta hanno cambiato il modo in cui lei si percepisce come essere umano?», chiesi. Margaret A. mi guardò dritta in faccia, come se volesse capire da dove fosse spuntata fuori quella domanda. A disagio, lanciai un’occhiata ai militari di sorveglianza; benché non mi prestassero particolare attenzione (sottintendendo così che la domanda era accettabile, dato che se non lo fosse stata, il funzionario del Dipartimento che controllava l’intervista gli avrebbe dato ordini in questo senso tramite gli auricolari che avevano nelle orecchie), mi sentii minacciata dalla loro presenza come non mai. Questa stanza, pensai, è troppo piccola per così tanti corpi e macchine.

Vorrei poter ricordare le parole precise di Margaret A., ma tutto ciò che posso offrirvi è una parafrasi. Esordì commentando ironicamente che se c’era una cosa che la detenzione le aveva fatto capire era quanto il mondo la prendesse sul serio, con il risultato che ora anche lei si prendeva più sul serio che mai. Immagini, disse con un sorriso obliquo, non proprio sardonico, io ero una nullità finché gente sconosciuta non iniziò a darmi ascolto. Immagini che le persone considerino ogni parola che ti esce di bocca tanto potente quanto un colpo di pistola. Non credo di essermi presa particolarmente sul serio finché non mi hanno messa in isolamento, senza concedermi alcun contatto umano. Dissero che sentirmi parlare era pericoloso per tutti. Per molte settimane vissi in una quarantena che si può riservare alle malattie più mortali e misteriosamente contagiose. Ero certa che sarei crollata. Ma capisce che botta di autostima? Ha idea di cosa significhi quando le tue parole vengono considerate così potenti? Questa reazione fece di me una persona che deteneva un potere unico, mai accordato a nessun mortale di cui avessi memoria. All’inizio io stessa stentavo a prendere sul serio la cosa. Più avanti sopraggiunse la paura. Ma come potevo continuare ad avere paura se non c’era nemmeno una possibilità su un milione che mi sarebbe stato di nuovo concesso di parlare liberamente?

Questa risposta mi prese completamente in contropiede. Mi ero aspettata che mi dicesse di essere amareggiata per l’ingiustizia del sistema che le aveva negato un processo equo (cosa che avrebbe potuto fare, credo, senza menzionare apertamente l’argomento), all’incarcerazione che aveva fatto strame della sua vita, all’orrore dell’allontanamento obbligato dagli amici e dalla famiglia. Ma grazie al punto di vista che mi offrì, compresi ancora una volta quanto fosse straordinario l’apparato che garantiva il suo silenzio – quante risorse fossero dedicate unicamente a quel fine, e quanta importanza, in effetti, le attribuissero per considerare necessario proteggersi dalle parole di una donna che era stata semplicemente una madre e un’insegnante di scuola media senza essere affiliata ad alcun partito o organizzazione (dato che la formazione di un movimento attorno alla sua figura si ebbe solo nei suoi ultimi tre mesi di libertà). Il fenomeno Margaret A. era esploso in una breve, inebriante visibilità come il primo bagliore inaspettato di un fulmine che screzia il cielo estivo in tarda sera.

Successivamente le chiesi se sentisse la mancanza della figlia (che, come è noto, si trasferì in Nuova Zelanda subito dopo l’incarcerazione della madre) e degli altri membri della famiglia. Margaret A. ci mise parecchi minuti per rispondere alla domanda, e la risposta fu di una complessità e di una imprevedibilità tali da farmi temere di non poter garantire l’accuratezza della mia parafrasi.9

La stampa e le altre istituzioni del nostro mondo considerano la privacy un privilegio, esordì Margaret A., un lusso, non qualcosa che esiga rispetto. La società umana non sarebbe la stessa se la privacy non fosse considerata un lusso. Di conseguenza, mia figlia ha pagato il prezzo della mia sincerità, un prezzo preteso dalla stampa e dalle altre istituzioni. Immagino che la maggior parte della gente venga a bussare alla mia porta per riscuotere questa tassa, basandosi sul presupposto che la mia sincerità significasse trascurare il mio – e dunque quello di mia figlia – diritto alla privacy. Ma per me la questione che riguarda mia figlia equivale a chiedermi se sarebbe valsa la pena di autocensurarmi per proteggere mia figlia prima che le mie parole attraessero l’attenzione generale. Mi sarei potuta permettere di pagare il prezzo che il silenzio avrebbe preteso da me? La questione è sempre capire qual è la posta in palio in ciò che si fa o che si omette di fare. Indubbiamente lei stessa ha messo da parte la privacy per poter partecipare a questo servizio giornalistico. Mi chiedo se abbia soppesato il prezzo che le costerà la sua presenza qui, oggi.

Mi stupì che le guardie di sorveglianza non interrompessero questo discorso. Io stessa sentii un’ombra di ribellione nella sua risposta, persino mentre parlava; ero certa che non si riferisse solo all’essere spogliata e all’ispezione degli orifizi corporali che avevo subito, ma anche agli anni in cui avevo dovuto mantenermi «pulita» dai contatti sospetti, anni passati a stare al gioco nel modo più impeccabile che lo stesso Simon Bartkey potesse desiderare. Suppongo che le sue allusioni alla stampa «e altre istituzioni» e i suoi riferimenti alla «società umana» e al «nostro mondo» sembrassero abbastanza vaghe ai supervisori in ascolto da non riuscire a capire esattamente di cosa stesse parlando. Ma l’espressione sul viso della mia produttrice mi dimostrò che per lei le parole di Margaret A. erano più che comprensibili e che anche lei, come me, le considerava sovversive.

A quel punto ci restavano solo tre minuti del tempo stabilito. Benché la troupe televisiva fosse entrata e uscita a piacimento dall’altra stanza, Margaret A. e io fino ad allora eravamo rimaste nella prima. Le chiesi se volesse farmi vedere la seconda stanza mentre rispondeva ancora a una o due domande. Aggrottò la fronte come se si stesse prendendo gioco del fatto che le avevo chiesto il permesso mentre i miei colleghi avevano puntato la telecamera su qualsiasi cosa avesse stimolato la loro curiosità, ma poi mi fece cenno di precederla attraverso l’apertura senza porta nella parete. Avrei voluto chiederle del giardino, ma quando vidi la pila di libri sul pavimento di linoleum accanto al materasso coperto dalla trapunta, le domandai se leggeva molto e perché. Disse che leggeva solo poesia. Scoccai una breve occhiata al libro in cima alla pila e colsi solo il nome dell’autrice: Audre Lorde. Consapevole del tempo che passava, guardai l’angolo del bagno che occupava la maggior parte dello spazio e mi chiesi cosa ci facesse con una vasca piena di acqua. Glielo domandai, e lei disse che le era concesso di lavarsi una sola volta al giorno e che l’acqua del bagno era tutto ciò che aveva per annaffiare il suo giardino. In preda alla frenesia, consapevole che restava solo mezzo minuto, le chiesi come passasse il tempo. Invece di rispondere, mi disse che non aveva senso tentare una replica giacché sapeva che la sorveglianza l’avrebbe interrotta prima di finire, e che le era già successo nelle altre due occasioni in cui aveva cercato di rispondere.

A quel punto un agente di sorveglianza ci disse che il tempo a nostra disposizione era scaduto. Non ero preparata, non avevo nemmeno iniziato a immaginare un momento del genere. Avevo condotto la mia intera vita al fine di ottenere questo incontro con Margaret A., e di colpo era finito, e non si sarebbe mai più ripetuto, e io non avrei mai più avuto l’opportunità di ascoltare questa donna le cui parole sono proibite.10 Rimasi paralizzata per qualche istante, a fissare Margaret A. come per imprimermi quell’attimo nella memoria. Guardando il suo viso impassibile e anziano mi resi conto che il nostro incontro non significava niente per lei, che noi eravamo solo un’altra troupe giornalistica in cerca di emozioni, che dopo qualche mese probabilmente non si sarebbe nemmeno più ricordata di me, che di sicuro considerava tutti i media automi senza volto che stavano al gioco e che per lei non contavano niente (tranne, forse, come garanzia contro un trattamento eccessivamente oltraggioso da parte dei suoi carcerieri).

Nel corso delle poche ore successive scivolai in un triste intorpidimento, rispondevo meccanicamente alle domande e ascoltavo i commenti sui rapporti finali, infischiandomene, in pratica, di quanto sarebbe potuto succedere. Avevo realizzato l’unica aspirazione della mia vita, e ora era finita. L’intervista era stata una delusione e il futuro aveva l’aspetto di una parabola discendente: grigia, smorta, senza senso.

 

La Questione degli Standard Professionali

Dopo il rapporto finale, mentre ci dirigevamo alla filiale di Los Angeles che ci aveva prestato il furgone, scherzammo per dieci o quindici minuti sulla trasparenza delle tecniche di «deprogrammazione» del Dipartimento Carcerario. Almeno per me era stato un calvario (e sospetto lo fosse stato anche per loro, dato che sentimmo la necessità di scherzarci su). Non solo dovevo restare lucida per dare ai miei interlocutori le risposte che loro consideravano corrette ma, cosa altrettanto importante, dovevo conservare intatto (per quanto fosse possibile) il ricordo delle parole di Margaret A.. Evidentemente, tutti noi superammo l’esame senza un errore, dato che la nostra produttrice ci assicurò che il funzionario responsabile le aveva detto di essere soddisfatto dei nostri rapporti finali.

Quando, finalmente, le battute riuscirono a disintossicare un po’ il nostro organismo da quella sensazione di malessere, la troupe iniziò a lamentarsi dell’insensatezza di tutta la situazione relativa a Margaret A.. Dicevano di non riuscire a capire l’importanza estrema che le era attribuita, e dichiararono che il fenomeno Margaret A. doveva essere stato da sempre una montatura dei media, dato che non aveva niente di speciale. Brontolarono anche per il fatto che il Dipartimento Carcerario aveva cancellato le loro inquadrature del computer, del «giardino», della vasca parzialmente piena e della pentola: tocchi che avevano sperato potessero elevare il nostro servizio al di sopra della mediocrità dei precedenti (anche se, naturalmente, pure il nostro sarebbe stato quasi identico agli altri). Questi tagli particolari suscitarono in loro maggiore perplessità e turbamento dei tagli che il Dipartimento Carcerario aveva fatto a qualsiasi fotogramma in cui le labbra di Margaret A. si muovevano. Scherzarono dicendo che il Dipartimento Carcerario aveva paura di chi sapeva leggere il labiale, poi passarono a discutere della paranoia del governo che stava dando tutta quella importanza a una donna che, a loro avviso, era solo noiosa.

Qualche minuto dopo aver ascoltato in silenzio la conversazione, la nostra produttrice si dissociò. «Quella donna è una distruttrice», dichiarò. «È così maledettamente sicura di sé e delle sue opinioni che solo le persone con un’alta fiducia in se stesse sarebbero capaci di resistere alle sue incursioni sovversive.»

La troupe ridacchiò. «Quale sovversione?», volevano sapere. «Intendi il rifiuto di stringerti la mano?»

La produttrice ignorò il colpo basso. «Gli idioti che ci controllavano erano troppo lenti per capire di cosa stesse parlando. Quando ha usato la parola “istituzioni” solo un idiota non avrebbe saputo cogliere il riferimento.» Quel contropiede li zittì e mise fine alla conversazione su Margaret A.

Nessuno parve notare il mio silenzio. E infatti io riuscii a parlare con Elissa Muntemba e contrattai sull’intervista senza destare sospetti.11 I sospetti vennero dopo, in altri circostanze – dopo che avevo iniziato a porre a me stessa le domande che, credevo, al mio posto Margaret A. avrebbe insistito per fare. Non mi stupì, dunque, che fu la stessa produttrice del servizio su Margaret A. a scoprire il mio piano. Lei sapeva, anche se nessuno poteva far risalire la cosa all’«influenza» di Margaret A.. «Tu sei un’adepta di Margaret A.», mi accusò. «Ti ha proprio preso all’amo, vero?» Detestavo così tanto il linguaggio che usava che, senza preoccuparmi delle conseguenze, mi lanciai in una discussione sulla nostra complicità con il Dipartimento Carcerario. Ma lei tagliò corto prima che terminassi la seconda frase. «I giornalisti professionisti non possono permettersi di essere sensibili alla sovversività», mi criticò con ferocia. Capisce fino in fondo quel che dice quando pronuncia la parola «permettersi»?, mi chiesi. Naturalmente no, perché continuò a rimproverarmi di essere una sciocca ingenua, di aver tradito gli standard professionali, e poi mi disse che ero licenziata. «Non ne farò parola sulla tua scheda», disse – ma più avanti mi chiesi quanto fosse vera quella rassicurazione dato che, ovviamente, si mise di punta a sabotare ogni mio tentativo di trovare un altro lavoro nei più importanti mezzi di comunicazione.12

La questione degli standard professionali è problematica per i membri della JATROF. I giornalisti come la mia produttrice sposano la posizione ufficiale del governo per determinare i parametri dell’obiettività. Qualsiasi considerazione dei fatti al di fuori di questa posizione diventa dunque un atto sovversivo. Se il mio incontro con Margaret A. mi ha insegnato qualcosa, è stato proprio che l’autocensura pretesa dai giornalisti per me è un prezzo troppo alto da pagare. La questione quindi è come il giornalista sappia conciliare gli ideali della professione con la pratica che la mia produttrice insiste nel definire «gli standard professionali».

Riepilogo

Primo: per chiunque sia interessato alla persona di Margaret A., posso dichiarare che la sua incarcerazione e il silenzio obbligato non l’hanno né demoralizzata, né depotenziata. Al contrario, gli sforzi del governo per cancellarne le parole sembrano aver rafforzato lo stile particolare e distintivo che caratterizza il suo eloquio. Dovesse arrivare il momento in cui il governo non potrà più resistere all’opposizione pubblica all’Emendamento Margaret A. (perché, con il passare del tempo, sempre più persone si convinceranno che la paura che il governo nutre nei confronti di questa donna sia o una paranoia isterica, o anche un pretesto cinico per controllare con severità i mezzi di informazione), probabilmente Margaret A. sarà pronta all’azione.

Secondo: la mia esperienza durante il servizio su Margaret A. suggerisce che in qualità di giornalisti abbiamo l’obbligo di mettere in discussione la sovrapposizione tra la rappresentazione del governo e i parametri di obiettività e gli standard professionali, in particolare quando questa rappresentazione esige l’eliminazione non solo delle parole ma anche dei fatti. I giornalisti attualmente lavorano in un ambiente in cui anche solo fare una domanda semplice come «che male c’è a mostrare l’inquadratura di una vasca?» sarebbe una mancanza di obiettività passibile dell’accusa di sovversione. Di conseguenza, la «censura limitata» delle parole di Margaret A. ha evidentemente alterato la definizione di obiettività e gli standard professionali del giornalismo. I membri della JATROF, ne sono certa, vorranno prendere in considerazione il prezzo da pagare a loro stessi e alla professione, continuando a sottomettersi al principio dell’autocensura che l’Emendamento Margaret A. ha espresso così chiaramente.

In seguito al servizio su Margaret A. ho imparato, pagando con la mia carriera – nella convinzione che, avendo raggiunto lo scopo di intervistarla non avrei più dovuto stare «attenta» – che questo processo di censura si estende ben oltre la diffusione delle notizie su Margaret A. per influenzare anche altri campi. Ironia della sorte, la traiettoria iniziale della mia carriera era stata dettata dalla determinazione di raggiungere un unico traguardo, quello di intervistare personalmente Margaret A., mentre, in effetti, è stata proprio l’intervista a mettere in discussione il prezzo che ho pagato per arrivarci. Quel prezzo non ha incluso solo la perdita dell’integrità personale e professionale, ma ha anche illuminato la mia capacità di vedere il mondo in cui vivo. Incontrare Margaret A. mi ha fatto risvegliare in un mondo in cui mi è parso di non aver mai vissuto prima, un mondo che, in qualità di giornalista, ho la missione di descrivere ed esplorare. È mia convinzione che le parole di Margaret A. siano state proibite per via del loro potere di mostrarci il mondo com’è davvero, senza paraocchi. Forse non potrò mai condividere pienamente lo sguardo di Margaret A.; forse non potrò mai avere una registrazione fedele delle sue parole. Ma grazie a Margaret A. ora vado cercando a tentoni quei paraocchi che hanno ristretto e oscurato la mia vista, per potermeli strappare di dosso e vedere un mondo più vasto e luminoso di quanto abbia mai sognato.

—   racconto estratto da: Le Visionarie
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